La Musica, ci salva.

Gaia Capecchi

L’odore della pece mista a legno io me lo ricordo bene. E tutto quel color miele, quelle sbiondature calde e odorose della cassa armonica. Quanto mi piaceva accarezzare il legno e appiccicare il naso alle effe baffute ritagliate in mezzo alla sua pancia. Che bello che era. Quanto difficile e meraviglioso. Abbrancavo l’archetto, piccina nei miei otto-nove anni, e via, cominciavo a massacrare le corde del violino. E zin zun zan, zun zun ziiiiiiiiii. Penso d’aver suonato dappertutto, con lo strumento incastrato fra mento, collo e spalla. Di fronte alle suore della scuola elementare che facevano di sì con la testa; in chiesa per la messa di mezzanotte col freddo che faceva; al saggio vestita con la gonna rosa e i capelli sciolti. Solo che poi il violino era diventato un tiranno. Certo, sì, c’era sempre quell’odore inebriante, le spezie e la foresta nel naso, come a dire Arabia e Norvegia insieme: una cosa così, assurda, folle, pazzesca anche solo a pensarla. Ma mica ce l’ho fatta più, a un certo punto. Ero piccina, l’ho detto. Non volevo padroni così crudeli che mi dicessero cosa fare tutto il giorno. Così ho pianto un po’, ho chiuso il violino nella sua custodia nera e gli ho detto addio per sempre. Ma solo a lui, non alla musica. Perché da allora io ho sentito che mi s’era aperto qualcosa, sotto la pelle e le ossa. Uno spazio che vuoto faceva paura, mostruoso e innaturale com’era. Uno spazio che andava riempito. Che fai, ti s’apre una voragine nel petto e tu non ti sforzi di richiuderla? Così a furia d’ascoltare musica, di registrare cassettine con le canzoni della radio, farsele registrare dal ragazzetto che mi garbava, struggersi alle feste per Careless whisper e poi ballare finalmente in qualche localaccio le canzoni dei Blues brothers è finita che io un giorno l’ho riconosciuto, il suono di cui avevo bisogno, quello che m’avrebbe salvato. L’ho capito d’improvviso come potevo annullare la rumorosa eco di quel silenzio che avevo dentro da quando non suonavo più. E’ allora che ho preso in mano un sassofono. Oddio. Mi verrebbe da nominare tutti i santi del cielo e pure qualche demonio, per ringraziare o maledire chi ha messo un sassofono nella mia vita. Il contrasto fra la superficie fredda dell’ottone e il suono caldo che esce dalla campana è roba che andrebbe messa fuori legge. L’odore diverso da quello di foreste e spezie che già avevo assaporato; piuttosto invece quello di fiato robusto, ferro, saliva, ruggine, passato futurista. Di fumo anche senza fumare. Il sapore di metallo e legno sulla lingua. La sensazione dell’ancia che ti vibra fra le labbra. Quelle note rotonde, grosse, piene che escono fuori. Mentre dentro io ho cominciato a sentirmi sempre più riempita e calda e felice. Suonavo. Producevo musica. Godevo. Quando poi sono iniziate le prove nello stanzino dentro il garage del batterista, allora, mi son sentita parte di qualcosa di irripetibile. Eravamo in quattro, a sudare là dentro: io al sax, il Coppini alla batteria, Francesco alle tastiere e il Navi al basso. Si suonava jazz. Si facevano assoli lunghissimi. Si decidevano attacchi, finali e bridge. Si rideva e ci s’arrabbiava e si litigava e ci si voleva bene come solo quelli che suonano in un gruppo chiuso in un garage puzzolente possono volersi bene. Era bellissimo. Tac, tac, tac – facevano le bacchette del Coppini – e si cominciava. Quante serate, quante ore a suonare. La mia prima bossa nova. Le accelerate del bebop. Le ballad arrotolaviscere. Là dentro è passato un mondo, si è viaggiato dappertutto, ci si è vestiti come ci pareva. Ma soprattutto è lì che io ho sentito, forse per la prima volta, cosa vuol dire non aver più bisogno di nulla. Essere in un posto, esserci per davvero, con i piedi, le gambe, la testa, la pancia e tutto; e non volersene più andare. Non ricordo neanche più come suonavo, se suonavo bene, se facevo ridere, se uscivano fuori delle notacce o piuttosto quei graffi ruggenti che certi sassofonisti sanno fare. Però mi ricordo come mi sentivo. E adesso, che nello stanzino di quel garage non ci suono più, so che la voragine dentro lo stomaco ha cominciato, vigliacca, a riaprirsi. E’ stata la musica del mio sassofono, un giorno, a salvarmi. O forse piuttosto a dannarmi per sempre, non saprei. Ma è certo che quel tipo di dannazione lì, io, l’augurerei soltanto alle persone che amo di più.

Di Gaia Capecchi

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Author: juandpaola

Juanita è una donna di trentacinque anni che da grande voleva fare la rockstar, ma ha aperto una società di redditi immobiliari, ha una bambina di quattro anni che adora e un quasi marito inglese che parla l'Italiano peggio di Don Lurio. Se Giulia fosse ancora viva molto probabilmente Juanita sarebbe la sua tour manager.