Mi chiamo Emanuele.
Non ricordo nemmeno esattamente quando ho conosciuto Giulia. Non importa, non m’importa. Conservo intatti però, sugli scaffali della mia memoria, montecatinesi pomeriggi affocati, coll’odore scivoloso degli strumenti incollato addosso; sere estive perse a buttar via note storte dietro a pleniluni celati da seminterrati e cantine arredati con batterie asimmetriche, tappeti, odore di sigaretta e birra stappata da ore; e un unico, solitario, pomeriggio ghiaccissimo all’aperto, dicembre o giù di lì, forse l’ultima volta in cui abbiamo suonato insieme. Poi ho lasciato contatti frequenti con quel gruppo e con quelle amicizie, per perdermi insieme agli altri, a tutti gli altri, nel viottolo sinuoso della vita. E son stato travolto, quindi, anni dopo, più che dall’acerba notizia della partenza di Giulia, dall’affastellarsi di tutti questi ricordi, pochi ma nitidissimi, feroci come paure lasciate a rincorrersi in un animo divenuto all’improvviso sgombro. Non avrei mai creduto in un’assenza così tangibile per una persona che credevo, in fondo, di conoscere così poco. E solo allora ho capito che avevo in mano la cristallina evidenza della perenne grandezza di Giulia.
Forse anche perché anch’io avevo viaggiato con Giulia, per qualche metro di diesis e bemolle lungo la corda del mio primo, buffissimo e sgangherato basso rosso.
A cura di Emanuele Pellegrini
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