Quelli che hanno conosciuto Giulia ricordano bene che ogni volta che lasciava la stanza, la casa, c’era da asciugarsi la fronte: o si ballava, o si cantava, o si schiantava dal ridere, o stavamo per prendere la macchina per andare da qualche parte. Quelli che invece hanno avuto la sfiga di non incontrarla, per poterla immaginare dovrebbero mischiare la Maria di Tutti Insieme Appassionatamente, la musicalità di Andrew Lloyd Webber e la semplicità di San Francesco per avvicinarsi, per difetto, a quel gomitolo di vita impazzita che era lei.
Certo, aveva i suoi lati negativi: cucinava come un pastore cieco. Portava calzini di spugna terribili. Aveva dei giubbotti che da soli impiegavano sei posti della macchina. E ogni tanto per provare un controcanto, all’improvviso (ndr: non c’era l’iPod) urlava una terza con la potenza del vulcano, qui, nel mio orecchio. All’urlo lancinante seguiva “E’ questa la voce che devi fare! Hai capito sì o no?!”. E io, riversa sul pavimento dopo un infarto, annotavo nella memoria breve.
Ma se la Musica era una sua (importante) declinazione, la sua natura risiedeva nella voglia di ridere, di vivere appieno: a Giulia avevano dato 10 talenti e ne riportava 100 a settimana. Giulia era il miglior broker alla banca dell’Amore e noi tutti attingevamo senza fine da lei, il nostro diavolo della Tazmania, rimanendo storditi a volte: “oh, ma levati le pile, ma facci stare un attimo tranquilli”. Niente, non era possibile.
La cosa che la faceva più ridere di me, non che io lo volessi, era il mio incedere sui tacchi alti, che non levo nemmeno per andare a letto: andiamo che sembri sciancata, ma ti levi quei cosiiiiii, e io le rispondevo me li levo, sì, il giorno che te ti metti un tailleur rosa.
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